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Non solo l’Italia sta in Occidente, con gran scorno del Partito Cinese così incistato nel piccolo establishment domestico e così alacremente indaffarato a capovolgere la bussola geopolitica, che è sempre (anche) valoriale. C’è di più: l’Italia sta nella fetta di mondo che le è propria in prima fila, da “miglior alleato degli Stati Uniti”, copyright del 47esimo presidente d’Oltreocano.
È, con sintesi serale, il senso dell’incontro alla Casa Bianca tra la premier Giorgia Meloni e Donald Trump. Tutto meno che formale, visto che Meloni fa proprio il lessico trumpiano, il cuore stesso della sua simbologia: “Renderemo l’Occidente di nuovo grande”. Anzitutto, condividendo la pars destruens, la premessa che permette di non sbaraccare una civiltà, e che la presidente del Consiglio lega alla radice stessa del rapporto tra Italia e America: “Oggi, 17 aprile, è l'anniversario dell'accordo che permise a Cristoforo Colombo di fare il suo viaggio. Questo per ricordare che condividiamo un'altra lotta, contro l'ideologia woke che voglio cancellare dalla storia”. Cancellare l’ideologia della Cancellazione, ecco una formidabile parola d’ordine liberal-conservatice, anche rispetto a certi residui politicamente corretti che si aggirano nel Vecchio Continente (forse anche questo intende Trump, quando afferma entusiasticamente che “Giorgia Meloni ha preso d’assalto l’Europa”).
Poi c’è la ciccia dei dossier, ovviamente. I dazi, anzitutto, che vuol dire molto di più, vuol dire affrontare uno squilibrio commerciale endemico, troppo endemico tra partner. “Credo nell'unità dell'Occidente, dobbiamo semplicemente parlare e arrivare a dei risultati, e trovarci nel miglior punto intermedio per crescere insieme”: il mantra meloniano è “incontrarsi a metà strada”. Cioè, molto meno banalmente di quel che sembra, stare nel Deal, nel formato negoziale trumpiano. E infatti The Donald scandisce, per la prima volta in modo inequivocabile, che “si raggiungerà al 100% un accordo equo con l’Unione Europea” sulle tariffe commerciali (questo è purissimo risultato della Meloni mediatrice, ruolo che né la Francia, né la Germania, né alcun loro satellite riescono a giocare).
A ruota, la ...
La domanda se sia ragionevole, oppure no, aprirsi sempre più al mercato cinese non ha una risposta semplice. Se da un lato è vero che il libero scambio ha un valore in sé, favorisce tutti i partecipanti e allontana ogni ipotesi di guerra, le cose possono essere diverse dinanzi a quell’inferno delle libertà che è l’odierna Cina comunista. Può quindi forse essere opportuno avere migliori relazioni commerciali con Pechino, ma ben sapendo che si tratta di una società basata sulla rapina di Stato, sull’ingiustizia eretta a sistema e anche su un progetto politico-militare egemonico che dovrebbe spaventarci.
Nel chiacchiericcio europeo di queste settimane, invece, sembra talora che la Cina sia l’ancora della libertà di fronte al preteso autoritarismo americano. Mentre gli alfieri delle banalità à la page continuano a raffigurare Donald Trump come una seria minaccia al genere umano, nessuno chiama mai in causa Xi Jinping, che divenne segretario del partito comunista cinese nel 2012 e ancora oggi è il “padre padrone” di un miliardo e mezzo di persone.
In verità, i post-marxisti woke dell’Europa declinante possono solo detestare l’America di oggi e non deve sorprendere che essi sentano pure una certa affinità con gli eredi di Mao. Gli scambi commerciali sono dunque soltanto un pretesto, perché è ovvio che se l’Europa accettasse di cancellare le proprie barriere (la disastrosa politica agricola europea e quella montagna di regole e regolette che è stata generata dalle direttive di Bruxelles) l’America farebbe lo stesso: in breve, avremmo un libero mercato atlantico. Si può discutere sui modi alquanto rozzi adottati da Trump, ma la sostanza sembra piuttosto chiara: gli Usa vogliono negoziare l’abbattimento delle barriere su un piano di reciprocità.
I problemi allora sono due.
Le classi dirigenti francesi, tedesche e italiane nutrono non soltanto una profonda antipatia per gli Usa trumpiani (per Musk, Robert Kennedy jr ecc.) e una spiccata simpatia per questi maoisti cinesi reinventatisi imprenditori di Stato (un po’ come ...